27 anni fa, a Palermo, perdeva la vita il giudice Paolo Borsellino, ammazzato dalla mafia con un attentato di stampo terroristico-mafioso avvenuto il 19 luglio 1992, di domenica, avvenuto difronte al civico 21 di via Mariano D’Amelio, nel giorno in cui il magistrato, accompagnato dalla scorta, si recava a casa della madre, nella quale viveva anche la sorella Rita. Sembrava una domenica tranquilla, ma alle 16,58 una Fiat 126 rubata e carica di 90 kg di esplosivo esplose e scoppio’ l’inferno. Con Borsellino, nell’esplosione, furono uccisi i cinque agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e prima donna della Polizia a cadere in servizio), Claudio Traina, Eddie Cosina e Vincenzo Li Muli. Sopravvissuto solo l’agente Antonino Vullo che era rimasto alla guida e che racconto’: “L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto…”. Via D’Amelio era considerata una zona ad alto rischio in quanto stretta, tanto è vero che stato chiesto alle autorità di Palermo di vietare il parcheggio di veicoli davanti alla casa, ma la richiesta rimase senza seguito.
Uno scenario apocalittico dopo soli due mesi dalla strage di Capaci nella quale furono assassinati Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo ed i 3 uomini di scorta ovvero Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Erano gli anni della mafia stragista, che colpiva fortemente lo Stato per rappresaglia contro la lotta alla criminalità organizzata. L’impegno di Borsellino contro la mafia fu netto e senza risparmio di energie. Fece parte del pool antimafia costituito da Rocco Chinnici. Assieme a Falcone nel 1985 scrisse l’ordinanza-sentenza di 8000 pagine che rinviava a giudizio 476 indagati in base alle indagini del pool. Il maxiprocesso di Palermo inizio’ nel 1986. Fu procuratore della Repubblica di Marsala. Nel settembre del 1991, cosa nostra aveva già abbozzato progetti per l’uccisione di Borsellino. A rivelarlo fu il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara.
L’assassinio di Borsellino e della sua scorta è stato definito anche strage di Stato. Molte furono le polemiche per la scorta assegnata o non assegnata ai magistrati. Borsellino aveva rilasciato interviste e partecipato a numerosi convegni per denunciare l’isolamento dei giudici e l’incapacità o la mancata volontà da parte della politica di dare risposte serie e convinte alla lotta alla criminalità. In una di queste Borsellino descrisse le ragioni che avevano portato all’omicidio del giudice Rosario Livatino e prefigurò la fine (che poi egli stesso fece) che ogni giudice “sovraesposto” è destinato a fare, parlando della sua condizione di “condannato a morte”. Sapeva di essere nel mirino di Cosa Nostra e sapeva che difficilmente la mafia si lascia scappare le sue vittime designate. Citando Ninni Cassarà, disse: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”.»