Cinque colpi di pistola esplosi nel seggio per le elezioni primarie dell’allora coalizione di centrosinistra “Unione”. Un delitto che sconvolse l’Italia e che riportò alla ribalta il tentativo di condizionare ogni scelta nella sanità e nella politica calabrese. L’omicidio di Francesco Fortugno allora vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, rappresenta uno dei momenti più drammatici della vita politica calabrese. Sono trascorsi quindici anni da quell’omicidio che arriva, quest’anno, nel giorno dei funerali della presidente della Regione, Jole Santelli, morta dopo una lunga malattia. Era il 16 ottobre 2005 quando Fortugno venne ucciso a Locri, nell’androne di Palazzo Nieddu, con una pistola calibro 9. Un agguato in piena regola, compiuto con estrema freddezza, in un luogo affollato nel centro cittadino, mentre Fortugno stava parlando con altre persone. L’esponente della Margherita aveva 54 anni e da pochi mesi era stato eletto in Consiglio regionale, decidendo di lasciare per un periodo di aspettativa il lavoro di primario nel pronto soccorso dell’ospedale di Locri. Ha lasciato due figli e la moglie, Maria Grazia Laganà, che successivamente venne eletta parlamentare del Partito democratico. I processi scaturiti dagli arresti per il delitto Fortugno hanno portato nel 2012 alla prima decisione della Corte di Cassazione che ha confermato definitivamente le condanne all’ergastolo di Giuseppe Marcianò, Salvatore Ritorto e Domenico Audino. Il padre di Giuseppe Marcianò, Alessandro, è stato giudicato, nel 2014, con una sentenza della Cassazione che ha confermato il carcere a vita. Sentenze che hanno segnato il ruolo dei Marcianò come mandanti, ma che non hanno spento le perplessità rispetto ad un livello superiore che avrebbe influito sul delitto. Un meccanismo perverso, fatto di ‘ndrangheta e politica, affari e sanità, contro i quali Franco Fortugno aveva assunto posizioni nette. Pagandole con la morte.
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