“Le Magazine Littéraire” ha dedicato un supplemento alla rievocazione di “Apostrophe”, la celebre trasmissione condotta da Bernard Pivot tra il 1975 e il 1990, e che ha rappresentato un fenomeno abbastanza unico nella storia di quelli che abitualmente si chiamano “talk-shows”. Pivot metteva intorno a sé sette, otto, dieci personaggi, alcuni dei quali autori dei libri che aveva scelto, altri che avevano l’aria di averne letti almeno alcuni, e li faceva parlare. Nessuno interrompeva chi stava parlando e Pivot con un leggero movimento del mignolo faceva segno che era il momento di cedere la parola a qualcun altro. Si rabbrividisce pensando alla degenerazione dei nostri “talk-shows” attuali dove la gente si parla addosso, sbraita, talora s’insulta e (cosa più terrificante) sovente il conduttore non cerca per nulla di sedare gli animi ma indirettamente alimenta la rissa. Dunque con “Apostrophe” la gente godeva di un cortese scambio di idee, mentre ormai (anche in trasmissioni analoghe in altri paesi) lo spettatore vuole soltanto godersi la zuffa, il tafferuglio, la baruffa, il parapiglia. E’ noto che i francesi sanno praticare l’arte della conversazione in modo quasi liturgico, persino in una cena tra amici. E’ vero che noi non ne siamo capaci? Eppure nel rinascimento Stefano Guazzo, gentile piemontese, aveva scritto un libro sulla “Civil conversazione”, di cui si contavano quarantatrè edizioni italiane fino alla metà del secolo XVII, oltre a traduzioni in latino, inglese, francese, tedesco. In questo trattatello, che ha influenzato tutta la cultura europea, si proponeva la conversazione come cura per gli ammalati di malinconia. Forse gli italiani, per varie ragioni, intenti a combattersi fra loro, hanno invece elaborato l’arte del conflitto, e viviamo ancora alla luce, o all’ombra, di quella eredità. Però che bei tempi, che civiltà. Le parole che avete fin qui letto non sono frutto del mio ingegno. Sono state tratte, senza la minima variazione, da un articolo di Umberto Eco “La civil conversazione”, pubblicato dal settimanale l’Espresso del 30 dicembre 2015. Sono rimasto alquanto sorpreso nel leggere il predetto articolo, perché da un po’ di tempo riflettevo sulla opportunità di pubblicare alcune mie riflessioni sul medesimo argomento. Oggi per me è diventato pressochè impossibile aggiungere nuove riflessioni a quelle, profonde e esaustive, pubblicate dal famoso semiologo e scrittore sopra ricordato. Infatti non lo farò. Ciò nonostante, provo ad ampliare un solo concetto accennato nel predetto articolo, al fine di sottolineare la estrema criticità del tempo che stiamo vivendo. Dunque, a proposito della “degenerazione” dei nostri “talk-shows” attuali, è opportuno rilevare che essi nascono dalla convinzione che il loro “indice di ascolto” è legato alla maggiore o minore capacità, dei “personaggi” che vi partecipano, ad alimentare non già il gusto per il colloquio colto e garbato ma, al contrario, il desiderio del conflitto, della prepotenza, della volgarità. Ciò vale per tutti i vari tipi di conversazione, pubblica o privata, tra giovani e vecchi, tra letterati e illetterati, tra nobili e plebei, e così via. E’ uno degli aspetti più eclatanti della grave crisi che sta attraversando, ormai da troppo tempo, il nostro Paese, e che non interessa soltanto il campo economico e finanziario ma anche e soprattutto il campo dell’etica e, conseguentemente, l’intera sfera sociale. Non può meravigliare più di tanto il fatto che ciò accada, dal momento che la natura umana, fin dalla sua origine, si manifesta impastata di egoismo e di sete di potere. A mio parere non esiste ambito dell’attività umana che possa ritenersi immune dalla predetta funesta “malattia”. Nel caso di specie, nel nostro Paese sarebbe molto semplice, in teoria, eliminare dai “talk-shows” la rissa e tutte le altre volgarità connesse, per riportarli alla pratica della “civil conversazione”, com’era del resto nel rinascimento. Occorrerebbe a tal fine ideare un apposito strumento di rilevazione, in grado di decretare automaticamente la definitiva chiusura del programma interessato e le penalità conseguenti da corrispondere, al superamento di determinati limiti di compostezza e di civiltà, opportunamente programmati. Ma un simile “strumento” non diventerebbe mai operativo, per l’ovvia ragione che esso sarebbe fortemente contrastato da quelle stesse persone che, dai programmi eliminati, non potrebbero continuare a trarre i notevoli vantaggi di natura economica e/o di consenso per i loro egoistici progetti avviati o da potenziare. Quindi bisognerebbe pensare a differenti rimedi, per esempio, ad una sostanziosa crescita del livello intellettuale medio dei fruitori delle programmazioni in argomento. Ma a mio parere, anche in questo caso, qualunque pratico suggerimento risulterebbe di difficile o impossibile attuazione. Del resto non risulta che le più importanti agenzie educative, come le famiglie, le scuole e le istituzioni religiose, abbiano solo tentato di organizzare forme efficaci di protesta contro i tanti “talk-shows”, che ormai imperversano su tutte le reti radio-televisive operanti nel nostro Paese. La circostanza che la moltiplicazione delle emittenti e lo zapping compulsivo renderebbero ancora più difficili eventuali tentativi di risoluzione del fenomeno fin qui esaminato, non giustifica di certo il silenzio delle precitate istituzioni. Intanto la vita dell’uomo continua. Sempre meno prevedibile nelle sue molteplici articolazioni. Sempre più ricca di inesplicabili misteri.
Carlo Rippa