di CARLO RIPPA
Scrivo le note che seguono nella speranza di riuscire ad esporre con chiarezza alcune idee, frutto di personale esperienza e meditazione, sul tormentato argomento relativo alla impossibilità che la verità storica dei fatti che sono oggetto dell’imputazione, corrisponda alla verità processuale che emerge al termine del processo. I motivi di detta impossibilità sono controversi. A mio parere è fondamentale premettere che i protagonisti del processo sono rappresentati dalla cosiddetta “difesa” della parte che accusa e dalla correlativa “difesa” della parte che si difende. Si tratta, com’è noto, di professionisti abilitati all’assistenza legale delle parti in causa, che utilizzano qualunque mezzo, non sempre lecito, ritenuto comunque utile e determinante al fine di convincere il Giudice delle buone ragioni del proprio assistito. Conseguentemente, entrambe le “difese” si sforzano di apparire totalmente convinte dell’assoluta veridicità delle argomentazioni avanzate, pur nella consapevolezza del fatto che, al temine dell’iter processuale, inevitabilmente il Giudice darà ragione soltanto ad una delle parti in causa. A questo punto sono inevitabili alcune domande: cos’è la verità processuale? Se ogni giudizio è destinato a concludersi con una parte vincente e l’altra perdente, perché non si riesce ad evitarlo, riconoscendo senza indugio la verità storica dei fatti oggetto del giudizio? Come può un avvocato assumere la difesa di una causa ingiusta? Le risposte, esclusivamente di natura tecnica alle predette domande, mi hanno sempre lasciato insoddisfatto. A mio modesto giudizio, prima di rispondere ai predetti interrogativi, è indispensabile avere studiato, in modo ampio ed approfondito, la natura umana, come chiarirò di qui a poco. Ma andiamo per ordine. La maggior parte dei teorici del diritto dà per scontato il principio che la verità processuale è, per sua natura, diversa dalla verità storica. La verità storica, infatti, non è un dato di immediata percezione positivamente definibile, bensì un’entità che, per essere disvelata, deve essere “strappata” dal luogo in cui ama nascondersi. Quindi, viene sostenuta l’inutilità di ricostruire integralmente il fatto oggetto del processo, poichè è sufficiente, ai fini della decisione, la prova della sussistenza degli elementi costitutivi del fatto denunciato e la prova della commissione di esso da parte del convenuto, anche perché il processo tende ad accertare non solo un fatto determinato ma anche la rispondenza dello stesso alla fattispecie, così come normativamente configurata. Infine, si rileva che il processo ha quasi sempre ad oggetto fatti avvenuti nel passato, ricostruibili con atti e testimonianze privi di assoluta certezza. Le considerazioni che precedono sono utili implicitamente anche per rispondere alla domanda relativa alla “difesa di una causa ingiusta”. L’avvocato, infatti, può sempre sostenere di non essere certo che il suo cliente riferisce la verità e, soprattutto, di essere convinto che la verità processuale non è una verità oggettiva, ma tutt’al più una verità probabile. Personalmente non ho mai condiviso le ragioni che di fatto determinano la discrasia, purtroppo constatabile nella quotidiana pratica giudiziaria, tra verità oggettiva e verità processuale. Gli studi fatti sull’argomento e la notevole esperienza personale maturata nel corso di molti anni, mi hanno profondamente convinto che per intendere correttamente la predetta discrasia, è inevitabile uscire dal campo strettamente giuridico, per entrare in un ambito molto più vasto e interessante, relativo alle scienze umane, al fine di capire compiutamente la vera natura dell’uomo. E’ possibile in tale modo convincersi che ogni uomo, indipendentemente dal sesso, dalla lingua, dalla razza e dalla religione, si caratterizza per l’innato egoismo e l’irrefrenabile ricerca del potere. Ogni sua azione, anche quella apparentemente più nobile, è compiuta se e nella misura in cui soddisfa il suo innato egoismo e accresce il suo personale potere. Questa è, purtroppo, la vera natura dell’uomo, che spiega abbondantemente tutti gli accadimenti che segnano, il più delle volte in modo negativo, la storia dell’umanità. Ritornando sull’argomento e dovendo concludere per motivi di spazio a disposizione, ritengo doveroso annotare che, troppo spesso, le stesse leggi che il processo dovrebbe fare valere sono “leggi ingiuste”, perché comunque poste in essere dall’uomo, creatura impastata di egoismo e di sete di potere personale. Ancora, le leggi, dopo un determinato periodo di tempo, cessano di produrre effetti di ogni genere, per effetto dell’assurdo istituto della prescrizione. Peccato che i danni, a volte notevoli e, soprattutto, il dolore che la prescrizione comporta, non vadano in prescrizione e continuino a mordere le persone che li hanno subiti, persone quasi sempre povere e certamente prive di potere. Allora, si dirà, non c’è speranza di rimuovere la suddetta discrasia tra verità processuale e verità storica? La mia convinta risposta è negativa. Alcuni credono che la rassegnazione sia un peccato, ma di certo allunga la vita.