REGGIO CALABRIA. C’era un vero e proprio patto eversivo, suggellato da esponenti di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta reggina nel corso di diversi summit, dietro agli attentati subiti in Calabria dall’arma dei Carabinieri, costati la vita a due militari, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, uccisi a colpi di mitra il 18 gennaio 1994 lungo l’autostrada A3 nel tratto Bagnara-Scilla, nel Reggino, ed il ferimento di altri quattro militari. Queste le conclusioni a cui è giunta la Dda di Reggio Calabria che stamani ha emesso due provvedimenti restrittivi a carico di due esponenti di spicco delle mafie calabresi e siciliana: Rocco Santo Filippone, 73 anni, di Anoia, considerato capo del “mandamento tirrenico” della ‘ndrangheta all’epoca degli attentati ai Carabinieri, e Giuseppe Graviano, 54 anni, palermitano, capo del mandamento mafioso di Brancaccio, coordinatore riconosciuto con sentenze definitive delle cosiddette stragi “continentali” eseguite da Cosa Nostra. Graviano era già detenuto nel carcere di Terni. Gli omicidi e i tentati omicidi, commessi nella stagione degli attacchi mafiosi allo Stato, sarebbero, secondo la Dda reggina, aggravati dalle circostanze dalla premeditazione, in quanto pianificate nell’ambito di un più ampio disegno criminoso di matrice stragista “ideato, voluto ed attuato – scrivono gli inquirenti – dai soggetti di vertice delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e ‘Ndrangheta”. Gli inquirenti ravvisano anche finalità di terrorismo e di eversione dell’ordinamento democratico, perchè Cosa Nostra e ‘ndrangheta intendevano costringere lo stato italiano a rendere meno rigorose sia la legislazione che le misure antimafia, ma soprattutto puntavano alla sostituzione della vecchia classe politica, ormai giudicata inaffidabile, con una nuova che fosse diretta espressione delle mafie, e, in quanto tale, proiettata a garantire e realizzare “i desiderata di Cosa Nostra”. Dunque, dopo il tramonto della “prima Repubblica”, i boss mafiosi intendevano continuare a mantenere l’influenza sulla classe politica “proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando”. Secondo la ricostruzione dei magistrati, elementi importanti della ‘ndrangheta tirrenica, d’intesa con esponenti reggini, diedero assicurazione ai corleonesi, rappresentati da Giuseppe Graviano, di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell’ordine e, in particolare, i Carabinieri. Queste componenti ‘ndranghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere all’organizzazione degli attacchi ai Carabinieri in terra calabrese. Quindi, i Filippone avrebbero individuato nel giovane Giuseppe Calabrò, nipote di Rocco Santo Filippone, l’uomo che doveva materialmente eseguire gli assalti, essendo dotato di un’eccezionale preparazione militare e di una straordinaria dimestichezza con le armi, ma anche perchè era, nelle valutazioni della Dda, “privo di scrupoli ed ansioso di affermarsi in ambito criminale”. Filippone e Graziano sono accusati di essere i mandanti, in concorso fra loro e con Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (entrambi già condannati in via definitiva come esecutori di dei delitti) e Demetrio lo Giudice, detto Mimmo, del tentato omicidio ai danni dei carabinieri Vincenzo Pasqua e Silvio Ricciardo, commesso in località Saracinello di Reggio Calabria nella notte fra il 1* e il 2 dicembre 1993; dell’omicidio degli appuntati Fava e Garofalo e del tentato omicidio di altri due militari dell’Arma, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, contro i quali furono sparati numerosi colpi utilizzando un mitra M12 ed un fucile calibro 12. Serra e Musicò rimasero feriti gravemente. Serra rispose al fuoco con l’arma d’ ordinanza. Anche quest’ultimo attentato avvenne a Reggio Calabria, in località Saracinello, il primo febbraio 1994. I tre attacchi all’Arma, si sottolinea negli atti dell’inchiesta, presentavano caratteristiche comuni. In primo luogo perchè furono compiuti nella cintura periferica di Reggio Calabria, ma anche perchè, in tutti gli episodi, era stata usata la stessa arma automatica (un mitra M 12), ai danni di pattuglie automontate, che, di notte, erano impegnate in normali turni di controllo del territorio.