Le indagini che hanno portato al blitz di ieri contro la ‘ndrangheta, con l’esecuzione di 334 misure cautelari personali e al sequestro di beni per 5 milioni di euro, hanno consentito di ricostruire con completezza gli assetti di tutte le strutture di ‘ndrangheta dell’area vibonese e fornito un’ulteriore conferma dell’unitarietà della ‘ndrangheta, “al cui interno le strutture territoriali (locali o ‘ndrine) godono di un’ampia autonomia operativa, seppur nella comunanza delle regole e nel riconoscimento dell’autorità del Crimine di Polsi”. Lo affermano i magistrati della Dda di Catanzaro. Le risultanze dell’operazione, in particolare, avrebbero documentato l’esistenza di strutture “quali società, locali e ‘ndrine, in grado di controllare il territorio di riferimento e di gestirvi capillarmente ogni attività lecita o illecita; lo sviluppo di dialettiche inerenti alle regole associative, nello specifico, sulla legittimità della concessione di doti ad affiliati detenuti e sui connessi adempimenti formali; l’utilizzo di tradizionali ritualità per l’affiliazione e per il conferimento delle doti della società maggiore, attestato dal sequestro di alcuni pizzini riportanti le copiate”. Documentata anche l’operatività di una struttura provinciale (“il Crimine” della provincia di Vibo Valentia ), una sorta di cupola “con compiti di coordinamento delle articolazioni territoriali e di collegamento con la provincia di Reggio Calabria e il “Crimine” di Polsi, quale vertice assoluto della ‘ndrangheta unitaria”. A capo della struttura vibonese si sarebbero alternati, negli anni, esponenti della cosca Mancuso, in particolare Giuseppe, Pantaleone e da ultimo Luigi, rispettivamente di 60, 58 e 65 anni. Questa struttura di vertice, annota la Dda, “ha governato gli assetti mafiosi della provincia, riuscendo anche a ricomporre le fibrillazioni registrate negli anni tra le varie consorterie”.
Egemone da cinquant’anni
Si afferma a metà degli anni ’70 il potere del clan Mancuso di Limbadi guidato sino alla morte, avvenuta nel 1997 per malattia, da Francesco Mancuso (cl. ’29). A metà anni ’80 e sino ai primi anni ’90, a guidare il clan gli succedette il fratello più piccolo della famiglia, Luigi, 65 anni, arrestato nell’operazione odierna denominata “Rinascita – Scott”. Dopo aver scontato 19 anni di detenzione in carcere, nel 2012 Luigi Mancuso ha riacquistato la libertà rendendosi per un periodo irreperibile. Sarebbe stato lui a riorganizzare le fila della ‘ndrangheta vibonese suddivisa attraverso i clan-satellite: i La Rosa a Tropea, i Lo Bianco-Barba a Vibo, i Patania a Stefanaconi, i Fiarè-Razionale a San Gregorio d’Ippona, i Bonavota a Sant’Onofrio, gli Accorinti a Zungri, i Bonavena ed i Barbieri a Cessaniti, i Soriano a Filandari, i Pititto a Mileto. Alcuni di queste famiglie, però, si sarebbero dimostrate insofferenti al potere dei Mancuso (come i Bonavota ed i Soriano), entrando in conflitto con loro. L’inchiesta di oggi mette in luce anche i rapporti dei clan con il mondo imprenditoriale, il mondo delle professioni e la politica. A testimonianza del potere della famiglia, l’episodio avvenuto nell’aprile del 2018 a Limbadi, quando un’autobomba uccise una persona, il biologo Matteo Vinci, ferendone gravemente il padre Francesco. Di quell’attentato è ritenuta responsabile Rosaria Mancuso, nipote del boss Luigi, insieme con il marito.
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