Stiamo assistendo quotidianamente alla esposizione da parte di tutti i media che ci ripetono all’infinito e ci informano dei “caduti e feriti” di questa lotta “silenziosa” che i sanitari tutti stanno combattendo, per noi, dentro e fuori gli ospedali, con passione e dedizione senza avere la possibilità di “scioperare” e ci rievocano di STARE A CASA per non AMMALARSI. Ma il rischio è che nessuno saprà mai che abbiamo vissuto il disfacimento dell’uomo nell’era del Coronavirus così come è avvenuto nell’era dei Lager. E’ quindi doveroso scrivere, analizzare e discutere anche dopo l’emergenza affinché vengano ricordati tutti gli eroi di questo periodo, i Medici, gli infermieri, i Sanitari tutti ma anche coloro che hanno dato la loro disponibilità affinché il Paese continuasse a VIVERE per dare speranza immediata e futura alla gente impaurita. Ricordare, quindi tutti gli eroi silenziosi come le commesse dei supermercati, i poliziotti, i militari, i farmacisti, i camionisti e tutti coloro che hanno fornito sempre e senza sosta tutti i prodotti necessari ed a volte anche futili per una nostra parvenza di quotidianità. Ricordare anche quegli eroi, quali i cittadini anziani e non che sono morti in solitudine senza nemmeno la possibilità di dare un ultimo saluto ai propri cari. Eroi che permettono di fare ricerca, epidemiologia, test e prove per salvare il resto della popolazione.
Si sono indirettamente e inconsciamente immolati per la scienza. I morti vengono ricordati nel “bollettino di guerra” giornalmente come numeri, anche se non hanno tatuaggi nel braccio, ma solo un braccialetto con codice a barre che consente il riconoscimento. Ma queste sono PERSONE con nome e cognome: con ricordi, passioni, momenti felici e grigi, in altre parole con una STORIA che va ricordata sempre nei tempi futuri affinché non vengano commessi più gli errori di sottovalutazione commessi nell’era del Covid-19. La paura sappiamo che è un’emozione primaria. Questa ha, come tutte le emozioni, un’utilità per l’uomo; infatti lo mette in guardia rispetto ai pericoli che incontra, ma essa non deve divenire un problema vissuto in maniera esagerata o fuori contesto. I feretri che sono stati caricati in questo periodo sui camion dell’esercito per essere trasferiti dal cimitero di Bergamo in altre zone del Nord per la cremazione sono stati e saranno molti, troppi ed in totale solitudine. A tutto oggi si assiste a nuovi, drammatici cortei militari con le bare di tante persone per le quali non è nemmeno stato possibile organizzare un funerale, perché le regole per contrastare la diffusione del coronavirus li vietano. Si tenta di contrastare la solitudine, la privazione della libertà, la PAURA con canti dal balcone, con i Flash mob o altre iniziative che puntano ad allentare tensioni e preoccupazioni, anche se per pochi minuti. Ma la realtà ci connette rapidamente alla “guerra”. Una città che non riesce più a contenere i morti è un’immagine che si era vista soltanto nei romanzi apocalittici e sci-fi. “Nessuno di noi in realtà canta, ma se cantare fa star meglio che si canti pure”. Nessuno ha immaginato questa sventura: “Appello ai turisti di tutto il mondo: le immagini e le notizie che vi arrivano della nostra Nazione non raccontano il vero. L’Italia è sempre pronta e fiera di accogliervi con tutte le sue unicità. Non rinunciate alla più bella meta turistica da visitare e conoscere”. Lo diceva Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, in un video postato su Twitter, insieme a lei tutti i leader dei vari partiti politici ed anche gli “scienziati” tutti in coro sostenevano che non esisteva alcun pericolo di epidemia in Italia. Oggi tutti, Politici, Scienziati, Cittadini, dovrebbero chiedere scusa pubblicamente al Paese ma soprattutto a quei morti che ci sono stati e ci saranno ed ai loro parenti che non si sa quando potranno onorare i loro cari. Il modo migliore per onorare i morti è restare VIVI. Si spera che la «solidarietà che proviamo adesso sotto la minaccia del virus, possa sopravvivere al virus stesso, trasformarsi in impegno collettivo per costruire un mondo più giusto e più umano». Dobbiamo ricordare i morti e gli errori ed orrori e non negare, raccontare ai nostri figli questa tragedia affinchè venga affrontata ed elaborata correttamente e completamente come quella delle foibe. La memoria dei tanti italiani trucidati dalla violenza comunista o del coronavirus devono avere necessario spazio. I tanti innocenti uccisi non devono morire due volte. “È importante che la morte ci trovi vivi”: è questo un illuminante aforisma del grande umorista e scrittore Marcello Marchesi. In verità si potrebbe e forse si dovrebbe essere ancora più onesti: è essenziale, e non solo importante, che la morte ci trovi vivi. In questi giorni siamo sollecitati a “vivere la morte” a partire dal ricordo dei nostri cari defunti. “Il dolore del distacco è stato ingigantito dalla sofferenza di non poter essere loro vicini e dalla tristezza dell’impossibilità di celebrare, come dovuto, il commiato dalle comunità di cui erano parte. Comunità che sono duramente impoverite dalla loro scomparsa”. (Mattarella 27/03/2020)-
Il tempo dell’uomo non è mai solo il tempo dell’essere, il tempo biologico, ma è anche il tempo che prosegue al di là delle condizioni dettate dalla cruda esistenza. La sepoltura dei morti è sempre strettamente connessa al ricordo e alla venerazione dei defunti: su una tomba è possibile ritornare, è possibile far continuare a vivere un legame, un ricordo. Anzi, si può arrivare a sostenere che una tomba è costruita proprio per permettere ai sopravvissuti di ritornare su di essa mantenendo così memoria di quei cari. Ecco perché il cimitero degli uomini è un luogo che è reso tale proprio dalla memoria dei vivi che non cessano di dialogare con i morti. Se ne vanno così: nel buio, in silenzio, in cortei senza una mano da stringere, senza la carezza o lo sguardo di chi amano. Muoiono soli. Distanti dalle lacrime di chi li piange. Sono i caduti di questa nostra guerra improvvisa, giunta senza ultimatum, senza dichiarazioni del nemico. Spesso deboli per l’età o per le malattie precedenti, ma a volte anche forti fino a pochi giorni prima. I loro cari non possono avvicinarli neppure “dopo”: questa maledetta storia ci impedisce l’estremo saluto, l’abbraccio degli amici e dei parenti, il conforto, il sorriso di un ricordo bello da condividere, nella tristezza del distacco. Abbiamo perduto anche il calore simbolico del rito dell’addio. Poi ci sono i numeri. Numeri che incalzano, ogni giorno, enormi, con il loro grande dramma, circoscritto dalle percentuali, dagli andamenti, dai tassi di letalità, dalla mortalità, dalle curve di tendenza temporale, dall’attesa dei picchi. I numeri dietro ai quali ci nascondiamo nel tentativo di raccontare con oggettività un’emergenza alla quale nessuno è preparato. Ma ricordiamoci, non sono numeri. Sono PERSONE, STORIE. “Mentre provvediamo ad applicare, con tempestività ed efficacia, gli strumenti contro le difficoltà economiche, dobbiamo iniziare a pensare al dopo emergenza: alle iniziative e alle modalità per rilanciare, gradualmente, ma con determinazione la nostra vita sociale e la nostra economia” (Mattarella). Se non ci mettiamo a programmare ora il DOPO, rischiamo davvero molto, come ci insegna la storia. Occorre una leadership forte, coraggiosa che dia subito una serie di priorità: dalla lotta alla povertà alla riforma del welfare, al peso da dare a scienza, istruzione, sanità, PMI. “Mi auguro -dice il Presidente della Repubblica- che tutti comprendano appieno, prima che sia troppo tardi, la gravità della minaccia per l’Europa. La solidarietà non è soltanto richiesta dai valori dell’Unione ma è anche nel comune interesse”. Ma tutto ciò dipende dalle scelte che i Paesi faranno e che già da ora fanno per uscirne nei tempi più brevi possibili e con le minori sofferenze. Perché la pandemia innesca la crisi ma sono le decisioni politiche, e anche quelle geopolitiche, a determinare ciò che sarà. “Abbiamo altre volte superato -ha detto ancora il Presidente Mattarella- periodi difficili e drammatici. Vi riusciremo certamente – insieme – anche questa volta”.
La Prima guerra mondiale e le successive, l’influenza spagnola e le violente lotte sociali furono seguite dagli anni ruggenti, da reazioni forti. Dopo le privazioni e la morte, la gente voleva divertirsi, incontrarsi, ballare, vivere. Probabilmente qualcosa del genere succederà alla fine del coronavirus anche se in modo diverso. Per quel che riguarda l’Europa, continuerà, come prima di conoscere il coronavirus, a giocare in difesa, chiusa nella sua mentalità eurocentrica ma senza una visione generale di sé stessa, su quale ruolo avere nel mondo. Forse addirittura più divisa di oggi, tra Paesi sospettosi del vicino e con nuove fratture tra Nord e Sud e tra Est e Ovest.
“L’Europa deve essere unita e solidale con un’identità fiscale tanto forte da bilanciare quella monetaria. Ridurre all’osso la pressione fiscale e niente più egoismi: non ci possiamo più permettere le spinte nazionalistiche di questi ultimi decenni” afferma Mario Draghi sul Financial Times. Rischiamo insomma di restare con un mondo senza un Paese leader. Una rottura della globalizzazione e dell’inganno di rapporti economici, tecnologici, scientifici, culturali che aveva avvolto il mondo nei decenni scorsi. A meno che, come dopo la Seconda guerra mondiale, non nascano nuove idee che ridefiniscano la capacità di ricostruire un ordine in grado di mettere fine alle dispute già fortissime prima del virus e in parte finite fuori controllo sotto la pressione della pandemia. Tutte quelle iniziative dirette a garantire la sicurezza e il benessere dei cittadini e specialmente dei lavoratori, decadute e superate, andranno probabilmente riviste perché i già alti debiti degli Stati saranno ancora più alti dopo la crisi. I sistemi sanitari andranno rafforzati traendo spunto già dalla esperienza di oggi, dai modelli che meglio sanno rispondere all’emergenza senza disparità tra nord e sud. La scienza e l’istruzione dovranno salire nella scala dei valori collettivi e modificati nella loro sostanza. La gente dovrà riavere voglia di vivere non solo nei caffè ma anche nella cultura e nelle arti, per cancellare la paura e le tristezze. Tutti, ora, ci diciamo che nulla sarà più come prima. Il mondo è cambiato. Tutti noi dovremo adattarci a un nuovo modo di vivere, di lavorare e di creare relazioni. Ma come per tutti i cambiamenti, ci saranno alcuni che ci perderanno più degli altri, e saranno quelli che hanno già perso troppo.La maggior parte di noi probabilmente non ha ancora capito che le cose non torneranno alla normalità dopo qualche settimana o addirittura dopo qualche mese. Alcune cose non torneranno mai più. Ian McEwan, in ricordo dell’11 settembre 2001, scriveva: “Come milioni, forse miliardi di persone in tutto il mondo, sapevamo di stare vivendo un momento che non avremmo mai potuto dimenticare. Sapevamo anche che il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Sapevamo che sarebbe stato peggiore”. Ora più che mai queste parole riecheggiano per un’altra tragedia. Per fermare il coronavirus dovremo cambiare radicalmente quasi tutto quello che facciamo: come lavoriamo, come pratichiamo sport, socializziamo, facciamo shopping, gestiamo la nostra salute, educhiamo i nostri figli, ci prendiamo cura dei nostri familiari e probabilmente sarà per sempre. Il concetto stesso di normalità è destinato a cambiare, per lungo tempo finché nel mondo continuerà a girare questo virus e fino a quando non si sarà trovata una cura o un vaccino. D’altra parte abbiamo già vissuto un drastico cambiamento in termini di controlli e misure di sicurezza, quindi ci si adatterà anche a questi. La sorveglianza invasiva sarà considerata un prezzo da pagare per garantirsi la libertà fondamentale: quella di VIVERE.
Dott. Alberto Pujia