di Carlo Rippa
L’ultima fatica di Bice Mortara Garavelli è un libro, “Silenzi d’autore” (Laterza, 2015) dove la grande studiosa della lingua italiana, accademica della Crusca, usa il libro, il massimo di parole, per intrattenere il lettore sull’assenza di parole, su ciò che non ha un suono. Un apparente ossimoro. L’Autrice riesce nel suo intento scegliendo le pagine letterarie più note sul silenzio, dalla classicità greco-latina fino alla letteratura dei nostri giorni, lungo un percorso che rivela ciò che l’assenza di parole può dire e, tuttavia, evitando di formulare, del silenzio, una spiegazione univoca, che ne avrebbe disperso lo straordinario incanto. Bice Mortara Caravelli guida quindi il lettore da una all’altra pagina della sua personale antologia, per fargli capire che il silenzio non è solo quiete o non detto, non è solo un atteggiamento religioso, non è solo stupore di fronte all’indicibile. Nelle pagine della letteratura è agevole scoprire molti altri aspetti del silenzio: il silenzio triste, rassegnato; il silenzio che è dolore ma anche indifferenza; il silenzio che è colpa per chi non ha avuto il coraggio di parlare; il silenzio che consente di distinguere il sapiente dallo stolto. Per Montale “la più vera ragione è di chi tace”; per Calvino il silenzio è “ la rete di rumori minuti che l’avvolge”; per Leopardi è “ il linguaggio di tutte le forti passioni, dell’amore (anche nei momenti dolci), dell’ira, della maraviglia, del timore”; per Ludovico Ariosto è un personaggio, che va con gli amanti, con i ladri, che dimora con il tradimento e con l’omicidio. Dunque, quante parole può nascondere un silenzio? Moltissime, soprattutto quando è d’autore. In sintesi, il volontario e virtuoso silenzio è soprattutto un linguaggio, che provoca e spinge a interpretare ciò che non viene detto, da utilizzare quando è utile e necessario, quando occorre stabilire un perfetto equilibrio tra tacere e parlare. E’ un linguaggio, appunto, che ogni uomo dovrebbe conoscere e opportunamente utilizzare. Purtroppo ciò accade ben di rado. Molto più di frequente l’uomo utilizza le parole per nascondere il pensiero. Come mezzo di comunicazione con i suoi simili, egli potrebbe utilizzare anche lo sguardo, il sorriso e molte altre espressioni del volto o atteggiamenti del corpo ma, soprattutto, dovrebbe praticare la rara virtù della coerenza delle proprie azioni con gli ideali di vita prescelti. Nel Vangelo di Matteo c’è scritto: “Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. A questo punto non posso fare a meno di ricordare un’ampia categoria di persone che, per mestiere, utilizza le parole per nascondere il pensiero. Mi riferisco ai così detti “politici”. Per motivi di spazio non posso dilungarmi sull’origine, sull’attività, sull’involuzione e sull’attuale grado di disistima di cui godono oggi, in particolare in Italia, detti ineffabili personaggi. Mi limito semplicemente a ricordare che in un mio articolo pubblicato il 17 novembre 2014 su questo stesso giornale, dal titolo “Perché non si riesce ad amministrare la cosa pubblica come una famiglia”, ho scritto, fra l’altro, che la gestione della cosa pubblica è realizzata dai “politici”, i quali rappresentano, tranne le immancabili eccezioni, una ”specie” sui generis di persone, facilmente distinguibile nel “genere” umano. Ho quindi indicato una lunga serie di peculiarità proprie degli appartenenti a detta “specie” umana, segnalando, in particolare, l’egoismo, la sete di potere e la loquacità morbosa e irrefrenabile, segni distintivi caratteristici di ogni “politico”. Se non esistessero le parole, come si potrebbe conquistare e mantenere il consenso, cioè il potere? In quale altro modo un politico potrebbe convincere gli elettori che egli opera unicamente per il “bene comune”, cioè di tutti, e non per allargare, massimizzandola, la propria rete di interessi?. E’ facile prevedere che per rispondere alle predette domande, i politici continuerebbero ad utilizzare le parole, soltanto le parole. Ritengo tuttavia che l’argomento oggetto del presente articolo imponga oggi una valutazione più ampia. Credo di potere affermare che, nel mondo moderno, l’uomo ha paura di rimanere solo con se stesso e, pertanto, si lasci sopraffare dal rumore. Per avere conferma del predetto assunto è sufficiente considerare i luoghi abituali di massima concentrazione delle persone e, in particolare, il vezzo troppo diffuso di parlare ad alta voce, di ascoltare la musica ad alto volume, di compiere ogni altra azione soltanto in presenza del rumore, ritenuto ormai inseparabile compagno di vita. Anche le Chiese, luoghi naturali del silenzio, a volte generano forti sorprese. Capita sempre più spesso di entrarvi per pregare e di essere costretti a partecipare alla celebrazione di un battesimo o di un matrimonio, o di qualche altro sacramento, in mezzo ad una folla di persone sconosciute, rumorose, distratte, che probabilmente non incontreremo più nella vita. Concludo, non prima però di avere riferito un fatto realmente accaduto. Gli abitanti di un vicino paese ricordano ancora che un loro parroco, ormai in pensione, era solito raccomandare ai fedeli di non deporre negli appositi “contenitori delle offerte” monete metalliche, ma solo monete di carta. E, con voce flebile, aggiungeva che la moneta metallica, quando raggiungeva il fondo del contenitore, faceva troppo rumore e disturbava il silenzio di Gesù, presente nel Tabernacolo. Quando si dice che “i preti ne sanno sempre una più del diavolo”!