L’ambiente in cui viviamo è caratterizzato soprattutto dalla crisi delle ideologie, dalla crisi del concetto di comunità e dunque dello Stato e dei partiti, dalla conseguente esplosione dell’individualismo, delle ossessioni mediatiche di visibilità, della vita simbiotica con i telefonini e ogni altro strumento utile per trasmettere le informazioni attraverso la rete telefonica o televisiva, della mala educazione. E’ la cosiddetta “società liquida”, in cui il non senso prevale quasi sempre sulla razionalità e genera inevitabilmente confusione, mancanza di coerenza, sovrabbondanza di parole, banalità di ogni genere e molto altro ancora. Per sopravvivere alla “liquidità” occorrono di certo nuovi strumenti, che purtroppo né la politica né la maggioranza della classe intellettuale riescono ad individuare. Personalmente ho maturato la convinzione che sarebbe estremamente utile riflettere, con assoluta serietà, sulla circostanza che noi contemporanei siamo diventati incapaci di venire a patti con la morte. Un tempo soprattutto le religioni si adoperavano a renderci la morte familiare. Le grandi celebrazioni funerarie, le solenni Messe da Requiem, le prediche sull’inferno ci richiamavano all’idea della morte e, almeno fino a qualche tempo fa, fra i libri più letti figurava il “Giovane provveduto” di don Bosco, un prete solitamente gioviale, che tuttavia non perdeva alcuna occasione per proporre riflessioni non proprio rassicuranti sulla morte. Nel precitato libro egli scrisse testualmente:” Non sai se la morte ti coglierà nel tuo letto, o sul lavoro, o per istrada, o altrove. La rottura di una vena, un catarro, un impeto di sangue, una febbre, una piaga, una caduta, un terremoto, un fulmine, basta a privarti della vita. Ciò può essere di qui a un anno, a un mese, a una settimana, a un’ora, e forse appena finita la lettura di questa considerazione”. Il filosofo Sergio Givone, nel corso di un interessante Convegno nazionale sull’esperienza del morire, organizzato a Copanello di Catanzaro dall’Istituto di psicoterapia cognitiva postrazionalista di Roma, cui hanno partecipato numerosi esperti di diverse religioni e circa trecento medici e psicologi, ha sostenuto con chiarezza: ” Ci siamo illusi che per vincere la morte o almeno per non provarne più l’angoscia bastasse rimuoverla, allontanarla da noi, distogliere lo sguardo da una realtà troppo sgradevole per dei supercivilizzati. E la morte si è vendicata. Tant’è vero che si abbatte su di noi con una casualità e una insensatezza totali; ciò che la rende anche più paurosa, più temibile, più inaccettabile. Noi della morte abbiamo perfino cancellato l’immagine. Perciò, incapaci come siamo di rappresentarcela, la morte non può essere cosa nostra. Tantomeno nostra sorella. E qui la domanda è: se la morte non è nostra sorella, a quale oscura potenza siamo abbandonati? Se la morte non è l’ombra che accompagna la nostra vita, e nella quale alla fine la nostra vita si raccoglie, come accolta da una sorella, che speranza resta?”. Una parte del mondo scientifico ritiene finanche di combattere la morte con gli strumenti di una medicina che, nel mentre si considera onnipotente, anestetizza il morire, stende il silenzio sulla morte, cerca di esorcizzarla. Ma la medicina da sola, è stato detto, rischia “di fissarsi su un accanimento biologico che diventa disumanizzazione”. Dunque, la saggezza dell’uomo dovrebbe suggerirgli di impedire categoricamente che la morte scompaia dall’orizzonte di esperienza immediato. Questo insegnamento dovrebbe essere offerto in primo luogo dalle religioni, in particolare dalle religioni orientali. Tuttavia, a giudicare da ciò che giornalmente accade sul nostro pianeta, i frutti di tale insegnamento sono decisamente molto scarsi, pur considerando che la prospettiva escatologica determina, in ultima analisi, le scelte dell’uomo. Intanto la vita continua, sempre più imprevedibile, sempre più stupefacente, sempre più inesplicabile. E con la morte sempre in agguato.
Carlo Rippa