REGGIO CALABRIA. Era la stagione 1990-’91 quando la Reggina, allenata prima da Aldo Cerantola e poi da Francesco ‘Ciccio’ Graziani, retrocedeva dalla Serie B alla Serie C, in virtù del 18° posto nel campionato cadetto. Tra le poche note liete, si notò un giovane, in prestito dal Torino, che a 20 anni sembrava pronto per alti palcoscenici. Si trattava di Benito Carbone, che avrebbe poi fatto un’egregia carriera, navigando soprattutto tra la Serie A e la Premier League. L’ex ala della Reggina, ma anche di Napoli e Inter, ha concesso un’intervista a Bwin, in cui ha parlato non solo della sua carriera, ma anche e soprattutto della debacle della Nazionale Italiana nel playoff con la Svezia, facendo un parallelo con la gioventù italica dei suoi tempi. Uno dei punti focali della discussione sul declino dei giovani italiani è stato quello della mancanza di un’istruzione tecnica nei settori giovanili. Si punta di più alla tattica e al collettivo, omettendo insegnamenti dei fondamentali. Questo il pensiero di Carbone: “Non riesco a capacitarmi del fatto che nei settori giovanili si lavori così tanto su tattica e collettivo, quando servirebbero tecnica di base, postura, palleggi, stop, accattare l’uomo eccetera. In senso lato manca il lavoro sul singolo, sul ragazzo che dovrà diventare calciatore ma anche uomo. E non servono allenatori ma istruttori, perché con i giovani quello devi fare: istruire. I ragazzi sono da seguire singolarmente, va lasciato loro del tempo per crescere. A un giocatore devi dare almeno un biennio per capire se può diventare professionista. Invece da noi si inseguono i risultati, si vuole vincere questo o quel torneo, si cercano i più pronti e ciò significa basarsi troppo sulla fisicità. Sembra pazzesco ma oggi puoi venire scartato perché sei più basso di 1,70. Così ci si riempie di gente prestante che però ha lacune tecniche di base. E da adulti, se non hai la qualità, non vai da nessuna parte. Come ho detto sono scelte disastrose, che infatti alla fine hanno dato risultati disastrosi”. Altra grana è rappresentata dall’elevato numero di stranieri in Italia, che per, non è superiore alla percentuale che c’è negli altri campionati. Secondo Carbone, il problema non riguarda le cifre, ma l’effettiva qualità e apporto che i ragazzi provenienti da altri paesi danno alle squadre. “Lo straniero che ti permette di alzare la qualità del campionato è un valore, perché crea un circuito virtuoso che tende a portare sempre più i migliori in Italia. Il problema è quando arriva gente senza qualità, o che cammina in campo. Poi c’è anche il problema delle giovanili, e questo si ricollega con il discorso che facevo prima. Spesso i ragazzi esteri sono più pronti fisicamente dei coetanei italiani, così le squadre giovanili si imbottiscono di stranieri e il problema diventa ancora più grosso. Anche lì se ne prendi 1-2 su 11 è ok, ma io vedo grosse squadre schierare 8-9 stranieri e non va bene” – il suo pensiero.
Carbone rincara la dose, parlando delle giovanili nazionale. Secondo l’ex ala, infatti, il problema non riguarda tanto la mancanza di qualità, bensì la possibilità che essi hanno in grandi squadre, e fa confronti illustri con la Nazionale U21 con la quale vinse l’Europeo di categoria nel 1994: “Il problema è un altro: i pochi giovani che ci sono, abbiamo paura di farli giocare! Guarda a Belgio, Inghilterra, Olanda: lì giocano dei ’96 e ’97 che da noi non trovano spazio perché abbiamo paura. Se guardi le formazioni del campionato belga, ci trovi un numero impressionante di ragazzi dal ’95 in su, tantissimi. Da noi, invece, si ha paura di bruciarli…L’Europeo del 1994? Spettacolare! Un anno difficile da dimenticare, era stata la mia consacrazione in A con Mondonico e Silenzi. E poi vinsi un europeo da titolare insieme a Vieri, Panucci, Muzzi, Inzaghi, Cannavaro… Ah, Fabio aveva 20 anni e giocava titolare in serie A, per dire”. A questo punto Carbone è stato interpellato anche sul suo passato, di cui ha svelato l’unico rimpianto: essere andato via dall’Inter per approdare in Premier League, nel 1995. La scelta che non rifarei è andare via dall’Inter. Era il primo anno di Moratti e di lì a poco avrebbero iniziato a comprare gente forte. Io non giocavo nella posizione che volevo. Avrei dovuto avere un attimo di pazienza, ragionare e forse con Simoni (arrivato l’anno dopo) mi sarei trovato bene. L’anno più bello credo sia stato quello di Napoli. Venivo da quell’anno al Torino con Mondonico e Silenzi che era stata la mia consacrazione. Poi sai, al di là degli errori che si fanno, uno legge la mia carriera e magari pensa che io abbia cambiato spesso perché ero io il problema, ma la verità è molto diversa. A Torino Calleri doveva sanare i conti e mi vendette, a Napoli Ferlaino aveva debiti e feci la stessa fine. Però confermo: all’Inter ho fatto l’errore più grande della carriera.