di Carlo Rippa
Il 1° maggio 2015 è iniziata l’Esposizione universale che Milano ospiterà fino al 31 ottobre, a cui partecipano 145 Paesi. Per molti è rinata la speranza che si possa avviare un serio confronto sul tema che dà il titolo alla manifestazione: ”Nutrire il pianeta, energia per la vita”. A tale proposito è opportuno ricordare alcuni dati, raccolti dall’osservatorio Land Matrix, che si riferiscono alla rapina (land grabbing) dei terreni agricoli del Sud del mondo. Negli ultimi cinque anni, infatti, ottanta milioni di ettari di terreni agricoli sono stati svenduti a investitori esteri e ben 338 milioni di ettari sono stati oggetto di contratti per sfruttamento agricolo. Si tratta di un fenomeno, noto fin dagli anni Settanta, che è letteralmente esploso nel 2008 con la crisi economica internazionale. Le ricerche sul campo parlano di condizioni svantaggiose per i Paesi che affittano o vendono i terreni, mentre crescono in modo esponenziale i profitti a beneficio degli investitori. In ogni caso è ampiamente riconosciuto che l’accaparramento della terra contribuisce ad affamare il mondo. La realtà di oggi dice che le persone che soffrono la fame sono più di 850 milioni e che il turpe mercato dei terreni agricoli viene alimentato, senza scrupoli, da Paesi europei, nordamericani, arabi, asiatici, ma anche da Stati come America latina, Sudafrica, Egitto e Libia. A finalizzare i contratti intervengono poi imprese private, multinazionali o joint venture pubblico-private. E’ così che la corsa ai terreni coltivabili non conosce tregua, in un contesto di economia internazionale e di mercato globale, che ha deciso di produrre cibo su vasta scala ingigantendo, nel contempo, la produzione di olio di palma, utilizzato nelle produzioni industriali e dei biocarburanti per produrre biodiesel e bioetanolo. Intanto, interi pezzi di Paesi vengono posti in vendita o in affitto al migliore offerente, senza alcuna preoccupazione del conseguente impatto negativo prodotto sulle economie locali, sull’occupazione e sull’impoverimento del suolo. In un quadro così drammatico e, in prospettiva, ancora più sconvolgente, come leggere l’Expo Milano 2015 ? Come evitare che l’evento si limiti a discutere solo della crescente domanda mondiale di alimenti e della necessità di affrontarla, senza sostenere, nel contempo e con piena convinzione, che il problema dell’alimentazione, della salvaguardia delle risorse del nostro pianeta impone la solidarietà verso tutti, specialmente gli ultimi e i poveri ? Cosa fare per sostenere con forza che, se è vero che l’attuale sistema alimentare globale ha contribuito a liberare grandi masse dal bisogno primario di nutrirsi, altrettanto vero è che proprio questo modo di produrre, di distribuire, di preparare e vendere il cibo, ha nel contempo prodotto depauperamento e inquinamento dei suoli, scarsità d’ acqua, perdita di biodiversità, incalcolabile spreco di risorse alimentari, mentre i malnutriti e gli affamati continuano ad essere stimati più di 850 milioni ? Ed ancora. E’ noto a tutti che la grande distribuzione vende prodotti senza stagionalità i quali, dopo lunghe filiere, vengono esposti sui banchi dei supermercati, con il conseguente pericolo che, mercificando il cibo, si perda anche tutto ciò che esso significa come cultura, storia, memoria, legame con la terra, spiritualità ? Come partecipare detto pericolo ai tanti milioni di visitatori che parteciperanno alla manifestazione internazionale di Milano ? Ed infine e mi fermo qui, in quali modi proporre un’ ampia e seria riflessione sull’agricoltura con organismi geneticamente modificati, soprattutto in considerazione del fatto che gli Ogm vengono coltivati in estese monocolture e sono sottoposti a diversi trattamenti chimici, con il rischio di contaminazione di piante non Ogm, della stessa specie, a cui il singolo agricoltore non può sottrarsi ? Ho forti dubbi che Expo Milano 2015 riesca ad essere un efficace luogo di confronto sui temi sopra prospettati. In ogni caso l’auspicio è che la fantasmagorica manifestazione milanese, dopo le tante illusioni suscitate, non si riduca, infine, a poco più di una rassegna di ristoranti etnici.